Articolo 18 e Lavoro Pubblico: le non condivisibili conclusioni della Cassazione Stampa
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Il vecchio testo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non può applicarsi e continua a vigere anche per il lavoro pubblico la duplice riforma a tale norma, apportata dalla legge 92/2012 prima e dal d.lgs 23/2012.

Le conclusioni tratte dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 9 giugno 2016, n. 11868 non possono essere in alcun modo accettate, perché fanno leva su argomentazioni da considerare senz’altro prive di fondamento giuridico, oltre che contrastanti con la logica e i principi fondamentali della Costituzione di uguaglianza tra i cittadini.

Mancata armonizzione. Una prima motivazione da rigettare è quella secondo la quale sarebbe il combinato disposto dei commi 7 e 8 dell’articolo 1 della legge Fornero a deporre per la mancata estensione al pubblico impiego della riforma dell’articolo 18.

Ecco cosa dispongono i due commi citati:

7. Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo.

Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalita’ e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

La Cassazione ammette che la norma non contiene un’esplicita esclusione della propria disciplina al lavoro pubblico, come ad esempio accaduto, invece, con l’articolo 1, comma 2, del d.lgs 276/2003.

Tuttavia, la sentenza invece di seguire una linea coerente con la premessa va in tutt’altra direzione ed afferma che vada valorizzato il comma 8 ed il suo rinvio ad un successivo intervento normativo per “armonizzare” la disciplina della legge Fornero a quella del lavoro pubblico.

La cosa, ovviamente, non regge, perché il comma 7 qualifica le norme della legge Fornero come principi e criteri che regolano anche i rapporti di lavoro pubblici. Ma, secondo la Cassazione, il comma 7 avrebbe solo lo scopo di fare “salve le disposizioni della legge n. 92 che dispongano in modo diverso”; infatti, detta legge “contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia già stata risolta in modo espresso dal legislatore del 2012”.

In sintesi: secondo la sentenza, la legge 92/2012, all’articolo 1, comma 7, farebbe salve le sole proprie disposizioni espressamente rivolte al lavoro pubblico le quali esclusivamente, quindi, si applicherebbero a tale ambito. Non, quindi, la disciplina della tutela dal licenziamento illegittimo, perché in merito non vi è una previsione espressa e, dunque, il rinvio di cui al comma 8 del medesimo articolo 1 rende necessario che intervenga il provvedimento normativo di “armonizzazione”.

Non è chi non veda l’artificio sofistico dell’argomentazione. Occorre chiedersi che senso ha che il legislatore faccia salvi i principi ed i criteri da esso previsti perché si estendano al lavoro pubblico, ma al contempo limiti tale salvezza alle sole norme espressamente ed esplicitamente riferite al lavoro pubblico. La risposta è ovvia: nessuno.

L’intento dell’articolo 1, comma 7, è diametralmente opposto: esso afferma che i principi ed i criteri della legge 92/2012 si estendono certamente, in via di principio, anche al lavoro pubblico, se ed in quanto con esso compatibili. La condizione della compatibilità è imposta dall’esplicito richiamo, nel comma 7, all’articolo 2, comma 2, primo periodo, del d.lgs 165/2001 a mente del quale “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”.

Come si nota, l’articolo 2, comma 2, contiene due enunciati:

il primo è quello dell’automatica applicazione al lavoro pubblico di tutte le norme del codice civile e di ogni altra legge sul lavoro subordinato nell’impresa; è proprio grazie a questa norma che il d.lgs 165/2001 (e il d.lgs 29/1993 prima) ha introdotto la cosiddetta “privatizzazione” del rapporto di lavoro pubblico!; il secondo è che tale estensione automatica delle leggi di stampo privatistico del lavoro è limitata dalle regole speciali proprie del lavoro pubblico, contenute nel d.lgs 165/2001.

Pertanto, proprio il testo unico sul lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione afferma esattamente l’opposto di quanto sostiene la Cassazione: al lavoro pubblico non si disapplicano le regole privatistiche non espressamente estese a tale ambito, ma, al contrario, si applicano tutte le regole del lavoro privato che non siano espressamente derogate dal d.lgs 165/2001 o che, comunque, si pongano in contrasto con le norme esplicite del medesimo d.lgs 165/2001.

Ecco, allora, a che serve un’opera di armonizzazione: non ad estendere al lavoro pubblico le regole del lavoro privato che già si estedono – tutte – automaticamente, per effetto dell’articolo 2, comma 2, primo periodo, del d.lgs 165/2001, bensì ad individuare, in casi di incertezza, quali norme e quali principi della disciplina privatistica non si armonizzano con quella pubblica, dettando, quindi, criteri applicativi speciali.

Sicchè, la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, alla luce dell’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001, non si applicherebbe al lavoro pubblico esclusivamente se nel d.lgs 165/2001 vi fosse una regola speciale, volta ad escluderne l’estensione; oppure se nella stessa legge 92/2012 (ma, lo stesso vale per il successivo d.l.gs 23/2015) vi fosse un’esplicita esclusione dell’estensione della riforma dell’articolo 18 al pubblico impiego.

Rinvio mobile o statico. Quanto osservato fin qui consente di dimostrare quanto priva di pregio sia una seconda argomentazione proposta dalla sentenza 11868/2016.

La Cassazione ritiene che l’applicazione della riforma dell’articolo 18 al lavoro pubblico non possa poggiarsi sul rinvio contenuto nell’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

Secondo la Cassazione il rinvio esplicito che il d.lgs 165/2001 fa alle regole privatistiche:

non è di per sé prova della piana applicazione dell’articolo 18; infatti, vi è una differenza sostanziale tra lavoro pubblico e privato, in quanto le tutele dell’articolo 18 (ante riforma contenuta nel d.lgs 23/2015) nel privato scattavano solo per imprese con oltre 15 dipendenti, mentre nel lavoro pubblico valevano per tutte le amministrazioni; in ogni caso, sostiene la Cassazione, con un ragionamento eufemisticamente definibile contorto: “va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata. Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo”.

In quanto al primo rilievo sintetizzato alla lettera a) di cui, sopra, esso non è decisivo: il Legislatore, nel rinviare con l’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001 alle disposizioni della legge 300/1970, ha semplicemente esercitato il potere di dettare regole particolari per il lavoro pubblico, esattamente come previsto dal più volte citato articolo 2, comma 2, primo periodo, del d.lgs 165/2001. Dunque, si è inteso estendere a qualsiasi amministrazione pubblica, a prescindere dal numero dei dipendenti, le previsioni dell’articolo 18. Tale osservazione non aggiunge e non toglie nulla alle riflessioni riguardanti il rinvio, meglio chiamarlo aggancio, tra normativa speciale del lavoro pubblico e leggi sul lavoro subordinato nell’impresa.

Il secondo elemento di ragionamento riportato poco sopra nella lettera b) risulta, invece, destituito di qualsiasi fondamento.

Torniamo nuovamente all’articolo 2, comma 2, primo periodo, del d.lgs 165/2001: esso stabilisce l’automatica estensione al lavoro pubblico delle regole vigenti della disciplina del lavoro subordinato nell’impresa, a meno che nel d.lgs 165/2001 stesso non siano presenti norme speciali espressamente previste per il lavoro pubblico, che prevalgono su quelle riguardanti il lavoro privato. Se ne hanno molti esempi: nel lavoro pubblico è obbligatorio assumere a seguito di concorsi; la contrattazione collettiva si limita alla sola disciplina economica; alcune cause di licenziamento sono fissate dalla legge e non dai contratti; non è possibile l’acquisizione definitiva di mansioni superiori; non è possibile la “promozione” senza concorsi pubblici.

A fronte delle molteplici eccezioni e deroghe poste dal d.lgs 165/2001 alle norme sul lavoro subordinato nell’impresa, come si nota proprio l’articolo 51, comma 2, del medesimo d.lgs 165/2001, invece, prevede l’applicazione totale dello Statuto dei lavoratori a tutte le PA; e poiché lo Statuto dei lavoratori contiene l’articolo 18, ovviamente si estende anche detto articolo.

Pertanto, il legislatore del d.lgs 165/2001, ai sensi dell’enunciato contenuto nell’articolo 2, comma 2, primo periodo, avrebbe potuto prevedere una regola espressa che derogasse all’articolo 18 della legge 300/1970 per il pubblico impiego; ma, non lo ha fatto ed ha esteso espressamente al pubblico impiego l’intera normativa dello Statuto dei lavoratori, comprese le sue “modifiche ed integrazioni”.

Si è dato vita, quindi, esattamente al “rinvio mobile” che, invece, la Cassazione nega. E’ un rinvio “mobile” proprio perché l’articolo 51, comma 2, estende al pubblico impiego non il testo della legge 300/1970 vigente all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs 165/2001, ma al testo vigente di volta in volta nel tempo, per effetto appunto delle modifiche ed integrazioni.

E’ vero che nulla vieta, come osserva la Cassazione, al legislatore di escludere l’automatica estensione di una norma ad un altro ambio, con una norma di pari rango a quella contenente il rinvio. Il problema sta, però, nella circostanza che la legge 92/2012 non contiene affatto una norma che privi di effetto il “rinvio dinamico” all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, contenuto nell’articolo 51, comma 2, del d.lgs 165/2001.

Non può certo sortire tale effetto l’articolo 1, comma 8, della medesima legge 92/2012, che, come evidenziato prima, si limita a demandare al legislatore la soluzione di eventuali problemi di armonizzazione tra legge-Fornero e d.lgs 165/2001. Il rinvio “mobile” sarebbe divenuto “fisso”, come propone la Cassazione, solo se la legge 92/2012 avesse espressamente sancito che quanto da essa previsto in relazione all’articolo 18 della legge 300/1970 non ha efficacia per il lavoro pubblico, nei confronti del quale continua ad applicarsi la disciplina del vecchio testo, che continua pertanto a produrre effetti.

Insomma, lo sdoppiamento della disciplina dell’articolo 18 in una per la PA (quella del vecchio testo) e l’altra per il lavoro privato (nel testo riformato) lo avrebbe potuto disporre ed in via esplicita solo ed esclusivamente il legislatore, appunto così trasformando da mobile a fisso il rinvio di cui all’articolo 51, comma 2.

Ma, così non è stato. Sicchè tale sdoppiamento della norma finisce per essere solo una ricostruzione dottrinale o giurisprudenziale contraria alla legge e, come tale, inaccettabile.

Anche perché quanto suggerito dalla Cassazione si scontra con un problema insormontabile: il “vecchio” testo dell’articolo 18 non esiste più, a seguito di ben due riforme, una del 2012 e l’altra del 2015. In assenza di una norma esplicita di reviviscenza del “vecchio” testo (e tale non è assolutamente l’articolo 1, comma 8, della legge 92/2012), come è possibile affermare che sia “vigente” una norma che non esiste nell’ordinamento?

Violazione della Costituzione. Ma vi è di più. La lettura proposta dalla Cassazione appare inaccettabile anche per il suo plateale contrasto con la Costituzione.

Non si tratta solo di evidenziare la violazione dell’articolo 3, conseguente alla inaccettabile violazione del principio di uguaglianza, posta in essere nel momento in cui si frammenta il mercato del lavoro assicurando a quello pubblico un sistema di tutele profondamente diverso da quello esistente nel privato.

Si è in presenza della violazione, anche dei principi di buon andamento enunciati dall’articolo 97 della Costituzione.

Lo si evince chiaramente da una terza motivazione che la Cassazione propone come fondamento della propria teoria, laddove afferma che mentre nel lavoro privato “il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posto non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi”.

Appare evidente l’enormità di simile affermazione. Essa, di fatto, indica che la tutela del dipendente pubblico non è solo volta ad apprestare una salvaguardia alla persona del dipendente, ma ad un interesse generale contrario all’illegittimità del licenziamento. Come se, invece, nel privato non destassero allarme sociale, problemi esistenziali, sociali e finanziari, per altro riverberantesi sull’intera economia nazionale, i licenziamenti di lavoratori; come se, cioè, risultasse indifferente alla collettività la vicenda lavorativa di dipendenti privati, in una Repubblica, oltre tutto, “fondata sul lavoro”!

E’ abbastanza chiaro che la Cassazione intende riferirsi al pericolo che nella PA i licenziamenti possano scaturire da ritorsioni di ordine politico. Tuttavia, sia la riforma Fornero, sia il Jobs Act hanno lasciato intatta la tutela del reintegro nel caso del licenziamento discriminatorio basato su ragioni politiche: dunque, perché ritenere che il lavoratore pubblico risulterebbe esposto a licenziamenti “politici” applicandosi la riforma dell’articolo 18? Semmai, i problemi deriveranno, in particolare per la dirigenza pubblica, dal tasso di politicizzazione e precarizzazione del nuovo sistema dell’attribuzione e decadenza dagli incarichi dirigenziali, previsto dalla riforma-Madia, che priva i dirigenti pubblici di ogni autonomia dalla politica, anche perché rende totalmente inapplicabile l’articolo 18 (in qualsiasi testo) nei loro confronti.

Non ci si deve dimenticare che nel caso di specie trattato dalla sentenza (che, comunque, considera prescritto il diritto del lavoratore a chiedere la reintegra) la fattispecie è costituita da un dipendente del Ministero dei trasporti, che attestava di essere contemporaneamente presente a svolgere attività ispettiva nello stesso giorno a 500 chilometri di distanza.

Si è trattato, come capisce chiunque, di una violazione palese ai divieti di fedeltà nell’attestazione della presenza, nella sostanza non diversa dalle violazioni dei cosiddetti “furbetti del cartellino”.

Sarebbe da chiedere alla Cassazione, allora, quali interessi generali collettivi vi sarebbero da proteggere in un caso di specie? Un errore procedurale nel procedimento sanzionatorio, come si è determinato nel caso di specie, potrebbe giustificare il reintegro di un lavoratore che attesta infedelmente il lavoro svolto? Ci rendiamo conto che se la sentenza non avesse accertato la preclusione alla presentazione, da parte del lavoratore, della domanda di reintegro, il Ministero lo avrebbe dovuto riassumere?

Ci rendiamo, ancora, conto che sulla base della lettura offerta dalla Cassazione, errori procedurali che immancabilmente si presenteranno in applicazione della riforma del licenziamento nei confronti dei dipendenti che attestino falsamente la presenza in servizio a causa dei termini eccessivamente brevi previsti dal Governo, anche i “furbetti del cartellino” potranno contare sulla riassunzione, nonostante i proclami del “licenziamento in 48 ore”?

Fonte: leggioggi.it

 
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