Pubblica Amministrazione: Mobilità: tabelle di equiparazione confermano il caos inevitabile della riforma delle province PDF Stampa E-mail
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Il caos sulle province è sempre più profondo ed evidente, anche se ancora gli esponenti del Governo si ostinano a negarlo.

Le tabelle di equiparazione tra i livelli di inquadramento dei dipendenti pubblici sono l’ultimo pezzo di un puzzle impazzito, sfuggito totalmente al controllo. E testimoniano l’ennesima volta che la legge 56/2014, di per sé una rideterminazione sgangherata dell’ordinamento locale e una negazione del diritto di voto dei cittadini, è stata persino peggiorata dalla legge 190/2014.

Quest’ultima ha, infatti, spezzato irrimediabilmente il minimo filo di coerenza che la legge Delrio aveva impostato, contenuto nell’articolo 1, commi 92[1] e 96, lettera a)[2], della sua legge. Tali disposizioni, per capire in estrema sintesi, avevano posto un principio di assoluta simmetria tra funzioni provinciali non fondamentali da trasferire ad altri enti (regioni, comuni e loro forme associative) e risorse finanziarie, economiche, patrimoniali e personale necessari per gestirle. Insomma, se una provincia avesse speso, per esempio, 1 milione per gestire il turismo, la legge 56/2014 stabiliva che questo milione, la fonte di finanziamento, gli uffici, le dotazioni ed il personale passassero integralmente alla regione o (pro quota) ai comuni subentranti.

La legge 56/2014, attraverso l’articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), nella sostanza aveva impostato la traslazione delle funzioni non fondamentali delle province verso gli enti destinatari di esse a seguito del riordino come si trattasse di una vera e propria cessione di ramo d’azienda.

Per questa ragione, l’ente di destinazione, regione o comune che fosse, avrebbe acquisito la funzione ed avrebbe dovuto limitarsi (sia pure con le connesse implicazioni organizzative) a garantirne la prosecuzione, ceteris pari bus.

Si spiega, dunque, perché i citati commi 92 e 96, lettera a) garantiscono al personale delle province trasferito posizione giuridica ed economica, con riferimento alle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio, in godimento all’atto del trasferimento, nonché l’anzianità di servizio maturata. Tale personale, infatti, nella logica della cessione del ramo d’azienda, avrebbe continuato a svolgere le funzioni già a proprio carico quando si trovava in provincia. In tal modo, non cambiando mansioni e competenza, poteva non cambiare il trattamento economico, tanto quello tabellare fisso e continuativo, quanto quello accessorio. Non a caso, proprio il comma 96, lettera a), precisa che “le corrispondenti risorse sono trasferite all’ente destinatario; in particolare, quelle destinate a finanziare le voci fisse e variabili del trattamento accessorio, nonché la progressione economica orizzontale, secondo quanto previsto dalle disposizioni contrattuali vigenti, vanno a costituire specifici fondi, destinati esclusivamente al personale trasferito, nell’ambito dei più generali fondi delle risorse decentrate del personale delle categorie e dirigenziale”.

L’ente di destinazione non avrebbe dovuto subire alcuna spesa conseguente all’acquisizione delle funzioni e del personale: infatti, i costi per le nuove funzioni ed il maggior numero di dipendenti sarebbero stati finanziati integralmente dalle province stesse.

Come abbiamo detto innumerevoli volte, la legge 190/2014 ha stabilito di imporre alle province un versamento coatto alle casse dello stato che sarà di 3 miliardi a regime nel 2014; ciò rende finanziariamente impossibile l’attuazione dei commi 92 e 96, lettera a), della legge Delrio, perché le province non disporranno delle risorse necessarie per quelle che abbiamo definito, semplificando, cessioni di ramo d’azienda.

Che quanto appena affermato fosse una, l’unica, corretta interpretazione dell’effetto della legge di stabilità 2015, lo conferma l’ammissione candidamente inserita nella nota della Funzione pubblica diffusa nei giorni scorsi, per chiarire ad Anci, Upi e Conferenza delle regioni alcuni dei troppi aspetti controversi del micidiale combinato disposto delle leggi 56/2014 e 190/2014, ove si legge: “La riduzione della spesa corrente, disposta per effetto dei commi 418 e 419 della legge 190/2014, determina che, per gli enti di area vasta, la mobilità del personale dipendente degli stessi enti non comporta trasferimento di risorse finanziarie”.

Detto, allora, in altri termini più secchi e comprensibili: la legge 190/2014 ha disapplicato, cioè abrogato, proprio l’articolo 1, commi 92 e 96, lettera a), della legge 56/2014. Ciò che non hanno mai voluto ammettere esponenti del Governo e della maggioranza, è stato specificato comunque da una fonte governativa.

Il caos nasce tutto da qui. La disapplicazione del sistema di cessione di ramo d’azienda accolla agli enti che subentreranno alle province l’onere di addossarsi tutti i costi della gestione delle funzioni provinciali, ivi comprese quelli connessi al personale.

Si capisce, allora, perché le tabelle di equiparazione presentate lo scorso 2 aprile da Palazzo Vidoni ai sindacati non possono garantire ai dipendenti trasferiti il trattamento economico accessorio (che invece sarebbe stato assicurato dalla legge Delrio). Poiché gli enti subentranti nelle funzioni provinciali dovranno finanziare da sé i costi, non possono salvaguardare il trattamento accessorio dei dipendenti trasferiti: questo, infatti, comporterebbe un maggiore costo ed un’erosione delle risorse della contrattazione decentrata. Per i dipendenti trasferiti, dunque, gli enti di destinazione non potranno che riservare le limitate risorse contrattuali disponibili.

Naturalmente, nessuna garanzia può essere immaginata per le amministrazioni pubbliche che acquisiscano i dipendenti provinciali in mobilità, senza essere destinatarie delle funzioni provinciali. Si faccia l’esempio dell’avviso di mobilità da 1.031 posti del Ministero della giustizia. Tale mobilità non sarà rivolta a traslare dalle province a detto Ministero le funzioni provinciali, ma solo funzionale a ricollocare il personale. Allora, se un dipendente di una provincia, in ipotesi addetto ai servizi sociali, presso la provincia era inquadrato come funzionario incaricato nell’area delle posizioni organizzative, in quanto coordinatore del gruppo di lavoro connesso, transita presso gli uffici amministrativi di un tribunale, è ovvio che perderà il trattamento accessorio. Non è affatto detto, infatti, che venga inquadrato nell’area delle posizioni organizzative (cioè, considerato come un “quadro”), né, per altro, continuerà a svolgere le mansioni a suo tempo gestite presso la provincia. Il Ministero della giustizia non avrebbe alcuna legittimazione ad assicurare a quel dipendente il medesimo trattamento economico che aveva in provincia. E questo varrebbe per qualsiasi trattamento accessorio dei dipendenti provinciali trasferiti: maneggio valori, turno, rischio, disagio, reperibilità, particolari responsabilità e qualsiasi altro.

Sono queste le semplicissime ed evidentissime ragioni per le quali le tabelle di equiparazione non possono garantire il salario accessorio.

I sindacati se ne sono accorti e strepitano. Ma, il 19 novembre 2013 stipularono un improbabile protocollo di intesa col Governo per garantire l’attuazione della riforma, rivelatosi, com’era facilissimo prevedere, del tutto inutile, ma che li ha tenuti fermi per mesi e mesi. Non una voce a segnalare le incongruenze enormi già evidentissime nella stessa legge 56/2014 mentre era in evoluzione, silenzio assoluto durante l’iter della legge di stabilità 2015.

Solo a cose fatte, a caos conclamato, ad abolizione di fatto del flebile sistema di garanzia occupazionale e reddituale immaginato dalla legge Delrio, conclamata dalla Funzione Pubblica, i sindacati hanno iniziato a comprendere davvero le conseguenze della riforma. Ma, ormai, come hanno immancabilmente fatto notare esponenti del Governo, è tardi.

Fonte: leggioggi.it

 

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