Pubblica Amministrazione: Una prassi che danneggia i fornitori e la stessa Pa PDF Stampa E-mail
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I «residui» sono una particolarità della contabilità pubblica, che si fonda sulla "competenza finanziaria": la rilevazione della spesa e delle entrate viene effettuata nel momento in cui "matura" l'impegno a spendere o il diritto a riscuotere.

I residui passivi, in particolare, consistono in operazioni di spesa che sono state impegnate, ma per le quali l'ente non ha ancora pagato il prezzo convenuto. In sostanza si tratta, per quanto riguarda i residui originati da spese correnti, di debiti verso fornitori che hanno effettuato la loro opera ed attendono il loro corrispettivo, che dovrebbe, per legge, essere versato a 30 o 60 giorni dalla fattura.

 Per i residui degli investimenti (Titolo II) il ragionamento è più complesso, perché l'impegno qui può essere una sorta di "prenotazione di spesa", cioè può nascere prima che si sia individuato il fornitore, ma all'avvio di una procedura di evidenza pubblica. In tali casi non è infrequente subire ricorsi e contenziosi che possono durare anni. Vi sono quindi "residui" che non sono debiti verso un fornitore che ha già svolto il suo lavoro, ma semplicemente importi destinati alla realizzazione di un'opera che ancora non è stata avviata.

 

Il peso del fenomeno, di cui non conosciamo la quantificazione, è comunque conseguenza dell'incidenza degli investimenti sulla spesa complessiva. Nel 2010, per avere un ordine di grandezza, negli enti territoriali la uscite correnti sono state circa 214 miliardi di euro mentre gli investimenti appena 34 miliardi.

È irrealistico pensare, pertanto, che il fenomeno possa pesare per oltre un 10% dei residui passivi. Il resto, almeno 120 miliardi di euro, sono debiti veri e propri, che una Pubblica amministrazione impazzita, si rifiuta di pagare perfino a se stessa. Sì, perché i debiti sono verso fornitori di ogni ordine e grado, ma i primi a vedersi negare il dovuto sono le società partecipate dagli enti stessi, che hanno armi spuntate nei confronti del cliente-proprietario, ma con conseguenze dirette sui fornitori e sui dipendenti di tali aziende. Gli effetti, perciò, non sono meno gravi, come dimostra la recente interruzione del servizio di trasporto urbano a Napoli, che curiosamente ha scatenato le proteste, ma non il pagamento del dovuto, proprio da parte del sindaco. O, ancora, le continue contestazioni dei dipendenti delle aziende di comuni come Reggio Calabria o Palermo, che non ricevono lo stipendio. I debiti delle società in house dei Comuni (compresi però quelli finanziari) sono circa 42 miliardi.

I motivi di questa situazione mostruosa ed ormai ingovernabile sono principalmente due.

La prima è certo il Patto di stabilità, che induce gli enti a bloccare i pagamenti pur di rispettare i vincoli imposti dalla legge sui propri saldi di cassa. Il problema, però, non sono i vincoli, quanto l'applicazione che ne viene fatta. Per rispettare il Patto si deve tagliare la spesa e non continuare a spendere non pagando i fornitori. Questa è una palese elusione e come tale andrebbe sanzionata.

La seconda lega i debiti ai crediti. Molti Comuni hanno residui attivi, ossia crediti, che probabilmente non riscuoteranno mai e che mantengono in bilancio solo per continuare a spendere soldi di cui non dispongono. Il risultato è un equilibrio formale e una realtà fatta di crisi pesantissime, e quindi di enti che non sono in grado di far fronte ai propri impegni. Il caso della Sicilia, che vanta un avanzo di 6 miliardi ma che sul finire della gestione Lombardo non era più in grado di pagare gli stipendi, è forse l'esempio più clamoroso di questo diffuso fenomeno.

Per tagliare il nodo gordiano di questa situazione non si può che pensare ad un intervento straordinario che va però abbinato alla ricerca di una soluzione strutturale (ovvero, a nostro modo di vedere, il passaggio alla contabilità di cassa e la rigorosa verifica del rispetto dei tempi di pagamento).

Ma la questione è anche un'altra. Quanto può durare questo "tirare a campare"? Quando un Comune come Napoli, come dichiarato dai suoi revisori, paga mediamente a cinque anni si può ancora parlare di debito di fornitura o siamo piuttosto di fronte a debiti finanziari (che come tali devono comunque rientrare nel debito pubblico consolidato)?

Fonte: ilSole24Ore.it

 

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